La Garfagnana, cuore selvaggio dell’Appennino Toscano. Un trionfo di colori, sapori e antiche tradizioni dove la Natura, il tempo e la storia si intrecciano
Da ottobre, quando il respiro gelido dell’autunno inizia a stabilirsi sui fianchi boscosi dell’Appennino garfagnino, comincia il tripudio di colori delle foglie pronte a cadere. Incastonata tra le Alpi Apuane e l’Appennino Tosco-Emiliano, la Garfagnana si trasforma in una tavolozza titanica con colori intensi e atmosfere sospese, colorando i boschi dal rosso al giallo e all’arancione. È la Natura che celebra il suo addio all’estate. Ore 7: Lago di Isola Santa. Il giorno si apre con una coltre silenziosa. La nebbia abbraccia i boschi, scivola tra i castagni e ammanta i piccoli borghi in pietra.

Ogni viuzza, ogni sentiero, nasconde un segreto in attesa del sole. Ogni foglia una pennellata, ogni scorcio un dipinto en plein air. L’autunno è la stagione finale di un ciclo, il capolinea di un viaggio che le foglie cominciano in primavera come autentici laboratori chimici. In Garfagnana, nella “… valle del bello e del buono. Dove il tempo non corre…”, come la descriveva Giovanni Pascoli, grande poeta e figura emblematica della letteratura italiana, che qui scelse di vivere, c’è un’innegabile poesia nella caduta autunnale del fogliame, che rende il paesaggio di grande suggestione. A ottobre-novembre il clima è perfetto per lunghe passeggiate, e qui in Garfagnana ci sono tutti gli ingredienti per scoprire luoghi a stretto contatto con la Natura selvaggia, con il silenzio rilassante.



Qui mi rendo conto di essere in una delle zone più boscose d’Italia: il 60% del territorio garfagnino è coperto di foreste, contro un 28% di media nazionale; tutto ciò grazie a due fortuite coincidenze di cause: le Apuane e le alte vette appenniniche hanno creato una valle nascosta, lontana dalle grandi vie di comunicazione. È la stagione delle piogge, quelle vere, che diffondono il profumo della terra, ed è anche il periodo delle prime nebbie che tutto nascondono e si confondono col fumo dei “metati”, gli antichi essiccatoi delle castagne, qui chiamate da sempre “necci”: inutile fare ricerche etimologiche sul nome, nessun risultato. È tempo di raccolta. Le castagne, cibo primario per secoli nella valle, raccontano una storia di sussistenza, tradizioni, comunità.

Dai 600 metri di altitudine il signore assoluto è lui, il castagno, poi i castagneti sono stati abbandonati per un lungo periodo e nessuno più accendeva i metati per essiccare le castagne, ma da qualche anno alcuni piccoli imprenditori hanno ricominciato a mettere in moto i mulini mossi dalle acque del Serchio e a produrre farina di neccio, che per la sua qualità ha ottenuto il marchio DOP (Denominazione Origine Protetta) e, come una storia a lieto fine, i castagneti oggi sono nuovamente curati come giardini e i vecchi metati hanno ripreso a fumare da ottobre a novembre.
Nei borghi dove il tempo sembra cristallizzato, le osterie preparano piatti rustici che si gustano davanti a un camino acceso. La cucina come memoria, accoglienza e allora via polenta di neccio, pasta e funghi, zuppe di legumi e formaggi d’alpeggio. C’è una data incisa sulla porta del vecchio mulino di Piezza: 1736. All’interno due macine trasformano le castagne in farina di neccio.
“Quest’anno ci sarà un buon raccolto”, mi spiega Matteo Pioli, 28 anni, proprietario del mulino. “Le abbondanti piogge primaverili hanno dissetato gli alberi e l’estate calda ha fatto maturare le castagne in modo eccellente. Da ottobre le castagne raccolte vengono messe nei metati per l’essiccazione con poco calore e tanto fumo per 40 giorni, con le braci che non devono spegnersi mai”. Davvero una storia di fatica, questa della farina di neccio. Ma una piccola economia di montagna, in un Paese, l’Italia, che vede i piccoli borghi montani spopolarsi, si è rimessa in moto. Matteo, il mugnaio di Piezza, raccoglie un po’ di farina color dell’avorio per controllarne la finezza; intanto nel negozio attiguo alcuni clienti fanno il pieno di questo regalo “dell’albero del pane”, per fortuna tornato in auge.
Oltrepassato il ponte a schiena d’asino di Mozzano sul Serchio, si arriva a Castelnuovo di Garfagnana, il borgo più grande e importante della valle, con le case addossate ai bastioni della stupenda Rocca Ariostesca.



Crocevia delle strade dirette ai valichi appenninici e apuani, il borgo fu sempre ritenuto di grande interesse, soprattutto dagli Estensi, che nel 1426 la promossero a capoluogo della Garfagnana. Continuando a seguire il percorso del Serchio si arriva a Barga, la cittadina nota per la sua atmosfera medievale dominata dal Duomo romanico, dedicato a San Cristoforo, con all’interno un meraviglioso ambone risalente al XII secolo, appoggiato sulla schiena di leoni marmorei. Dalla spianata erbosa del Duomo, il panorama è vasto e si può cogliere con un colpo d’occhio la media valle del Serchio e in fondo, nitida, la possente cuspide apuana della Pania della Croce, spolverata dalla prima neve.







Cuore pulsante del Parco Nazionale Tosco-Emiliano è la Riserva Naturale dello Stato dell’Orecchiella, dotata di un centro visitatori impeccabile, ben attrezzato, dove apprendere in anticipo i mille segreti dello splendido territorio: recinti di acclimatamento per la fauna selvatica, dove osservare facilmente cervi, mufloni, caprioli, oltre a un orto botanico con le specie montane del Parco, sotto la protezione, dal 2017, dell’Arma dei Carabinieri che ha inglobato il Corpo forestale dello Stato.
Cinquantaquattro chilometri quadrati di territorio caratterizzati da boschi di latifoglie, con estese faggete dagli 800 ai 1.400 metri. Un luogo dell’anima dove il paesaggio si fa poesia e ogni passo è un ritorno alle origini.
